Onorevoli Colleghi! - La presente proposta di legge va a regolare una materia oggi trascurata, e affronta il tema legato alla realizzazione di nuovi edifici destinati ai culti ammessi.
      Se, a un primo esame la questione parrebbe rientrare nell'ambito dell'articolo 8 della Costituzione, in realtà suggerisce nuovi spunti di riflessione che vanno al di là delle previsioni della nostra Carta costituzionale. La globalizzazione in primo luogo, e la conseguente presenza di lavoratori stranieri sul nostro territorio, hanno aperto un dibattito su come adeguare o, per meglio dire, regolamentare la presenza di comunità con culture storicamente antitetiche alla nostra. Alcuni studiosi di diritto islamico, tanto per sottoporre all'attenzione il tema di maggiore attualità, evidenziano che fino a qualche decennio fa le comunità locali italiane avevano a che fare con i musulmani, oggi invece hanno a che fare con l'Islam. Non è una sottile differenza: infatti, se in passato la presenza occasionale di alcuni lavoratori provenienti dal nord Africa non aveva comportato una riflessione su come regolamentare il rapporto tra singoli individui e comunità ospitante, oggi invece si pone il problema di regolare la presenza di comunità molto numerose che rivendicano a vari livelli il mantenimento di una loro identità culturale contrapponendosi alla nostra. Un esempio fra tutti è la diversa interpretazione del diritto di famiglia fornito dalle norme nazionali e dal diritto islamico. Il «perimetro giuridico» dell'articolo 29 della nostra Carta costituzionale

 

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è nato da tre anime culturali, quella cattolica, quella laico-liberale e quella socialista-comunista e i padri costituenti non avevano dubbi sulla assoluta parità giuridico-culturale e sociale tra uomo e donna come proprio elemento essenziale. Al di là delle differenze il «perimetro giuridico» era comune, ma oggi non è più così. Le comunità musulmane vivono la contraddizione di dovere rispettare le norme coraniche e la legge dello Stato italiano. Ad esempio, la traduzione della parola «famiglia» in arabo coincide con il termine «harem», parola nota in occidente, che definisce un diverso rapporto tra un uomo e donna, sottolineando infatti la preminenza giuridica da parte dell'uomo rispetto alla donna. Migliaia sono i casi dai quali emerge sempre la prevalenza della legge coranica rispetto alle norme del Paese ospitante. È evidente che è giunto il momento di definire un doppio binario tra le disposizioni e le conseguenze previste dall'articolo 8 della Costituzione e le necessarie norme che regolano l'attività di tutte quelle associazioni che, non sottoscrivendo intese con lo Stato italiano, devono rientrare in un sistema di disposizioni normative che definiscano in maniera ferrea e precisa le loro attività sul nostro territorio.
      Se nel nostro Paese partendo dalla definizione «libera Chiesa in libero Stato» si è costruito un sistema giuridico di rispetto e di complementarietà tra la sfera civile e la sfera religiosa, ciò non appare altrettanto valido per altre confessioni religiose. La visione politica, religiosa e culturale è indistinta nella cultura musulmana: infatti la conduzione di una comunità, da parte degli Imam, non separa le responsabilità amministrative e politiche da quelle religiose e culturali.
      Tale realtà risulta evidente dal concetto stesso di moschea, che in occidente viene spesso visto genericamente come un luogo destinato alla preghiera: ma non è così! La moschea è il luogo dove si raduna la comunità e non può essere assimilato al concetto di Chiesa così come concepito dalla tradizione cristiana, cioè come luogo consacrato destinato esclusivamente alla preghiera. Per l'Islam «l'adunata» è la massima espressione di fede e il capo della comunità che fa capo a una moschea rappresenta, in sintesi, quello che per noi è il vescovo, il sindaco e il preside di una scuola. Un tutt'uno che nella nostra tradizione culturale, giuridica e sociale non ha nessuna attinenza con la realtà, appartiene a un passato che abbiamo superato con un percorso unico nella storia culturale del mondo che è alla base del patrimonio dell'occidente.
      Dietro le fortunate parole «date a Dio quel che è di Dio, date a Cesare quel che è di Cesare» si è costruita la storia su cui si fonda la cultura occidentale, ma un tale concetto non esiste al di fuori del mondo occidentale! Il patrimonio giuridico è fondamento della nostra civiltà e non ha punti di convergenza con altre culture che hanno avuto un percorso diverso. Se non si tiene conto di queste considerazioni si confondono le legittime libertà di pratiche religiose e la regolamentazione della costruzione degli edifici che religiosi non sono o meglio, che lo sono solo in parte.
      Quando si afferma che la moschea è un luogo necessario alla preghiera non si dice la verità. Infatti, se si esamina quanto avviene nei Paesi arabi, si può notare che il luogo destinato esclusivamente alla preghiera è la cosiddetta «Musalla», cioè un generico locale destinato alle funzioni di culto ricavato liberamente in edifici non consacrati. Altro è la moschea, che è luogo politico e simbolico di una civiltà che ha avuto un percorso di 1.400 anni in antitesi rispetto alla cultura occidentale. A sostegno di questa considerazione non pochi colgono un significato simbolico e politico nella presenza, proprio a Roma, della più grande moschea europea. Solo il caso ha portato a questa singolare coincidenza tra la capitale della cristianità e il più grande centro islamico dell'occidente?
      Proprio per sottolineare la necessità di regolamentare attività ritenute fisiologiche alle pratiche religiose delle comunità musulmane è apparsa necessaria la presentazione della presente proposta di legge, che va a definire ambiti ed esercizi, individuando competenze precise in merito
 

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alla regolamentazione di luoghi che hanno a volte poco a che fare con le funzioni religiose così come concepite dalla cultura occidentale. Rimane sullo sfondo una considerazione che però non può essere trascurata: il fatto stesso che all'interno di numerose moschee italiane siano stati segnalati pericolosi terroristi internazionali legati ad Al Qaeda, non può più fare ritardare, infatti, una discussione che coinvolge anche la sicurezza stessa dei cittadini.
      Tutto questo non fa altro che alimentare il sospetto che spesso la moschea sia anche un luogo «militare» e le cronache quotidiane sono testimoni di fatti raccapriccianti. L'aspetto militaristico di una religione che vede nella moschea il proprio centro di aggregazione non può più fare attendere l'emanazione di norme che regolino la presenza e l'attività sul nostro territorio di comunità sempre più presenti. L'esperienza di questi anni ha dimostrato che il concetto stesso di «culto» nella tradizione islamica riveste un carattere giuridico esteriore «globale» legato a rituali molto diversi dalla nostra tradizione culturale; anche la presenza nelle moschee di attività di tipo commerciale che riprendono il concetto stesso di «suk» merita una regolamentazione. È giunto il momento di pensare alla necessità di definire regole pratiche che sfuggono spesso alla pianificazione statale centrale, investendo soprattutto competenze regionali. Se in occidente il concetto di mercato dal medioevo ad oggi si è profondamente evoluto e, conseguentemente, le norme giuridiche hanno trovato ambiti specializzati per la propria definizione, non così è avvenuto nelle comunità arabe attuali, che ancora rispecchiano situazioni legate alla nostra storia passata: ad esempio, le sagre medievali, nelle quali al commercio si associavano la festa religiosa e le attività ludiche, oggi in occidente sono casi sempre più remoti. Anche la presenza di scuole coraniche, spesso clandestine, ritenute complementari all'attività riconosciuta di diritto all'esercizio di culto, ha creato non pochi problemi interpretativi delle norme statali relative al concetto stesso di libertà religiosa e alla formazione culturale dei minori stranieri sul nostro territorio. Le stesse madrassa, cioè le cosiddette «scuole coraniche», non sono assimilabili, come concetto, alle nostre scuole pubbliche o private perché riassumono in sé la concezione di formazione culturale e spirituale in un rapporto inscindibile. Sarebbe come se in occidente i seminari o i conventi venissero fusi con le scuole pubbliche o private. Le norme statali su queste problematiche tacciono!
      Per completare il quadro delle tematiche che questa proposta di legge affronta è utile fare un ulteriore esempio. È concepibile in occidente che un Ulema, cioè un dottore della legge, possa regolare la vita anche dal punto di vista civile? La risposta è certamente negativa! Ma se tale divieto lo si impone a un musulmano lo si costringe a trasgredire le leggi coraniche. È evidente che il nostro sistema giuridico è inconciliabile con una visione del mondo così distante, sarebbe come ammettere che i nostri giudici siano assimilati ai nostri vescovi! Si rende quindi necessario definire con precisione l'ambito di esercizio di funzioni e di pratiche che oggi vengono regolamentate principalmente da leggi regionali, come previsto dalla modifica all'articolo 117 della Costituzione, laddove attribuisce alle regioni le competenze in materia di governo del territorio.
      In conclusione, vogliamo fornire un altro elemento che sottolinea l'evidente inconciliabilità tra due sistemi giuridici. Il caso in questione riguarda la sottile interpretazione giuridica delle norme che fanno riferimento al diritto internazionale regolato dalla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo sottoscritta dall'Italia il 10 dicembre 1948, che oggi rappresenta i princìpi e i valori di 171 Paesi. Ognuno di questi Paesi ritiene assolutamente inequivocabile il concetto giuridico «tutti gli uomini sono uguali davanti alla legge» (e sovente si è cercato di sottolineare che anche alcuni Paesi arabi hanno accettato questo principio), ma non si coglie l'equivoco di tale affermazione se non si traduce in arabo il termine «legge».
 

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      Lo si traduce con il termine «Sharia» che ha un perimetro culturale molto diverso da quello che noi intendiamo in occidente. Infatti il concetto giuridico prima esposto si legge: «tutti gli uomini sono uguali davanti alla Sharia»; conseguentemente non esiste parità tra uomo e donna, la dignità individuale del minore viene mortificata, la possibilità di cambiare religione è vietata. Questa lettura ha fatto nascere una Carta dei diritti dell'uomo musulmano firmata da 45 Paesi, in netta contrapposizione con la Carta sottoscritta dall'Italia nel 1948. Risulta evidente che non siamo più in presenza di un diritto internazionale largamente condiviso ma di un diritto internazionale su due piani, quello occidentale e quello mediorientale. In conclusione, quando si parla di «cultura di riferimento», sottolineando così che in occidente non sono ammesse deroghe al patrimonio giuridico, culturale, sociale e anche religioso dell'Europa, non si fa altro che sottolineare un divieto a cui alcune culture non possono sottrarsi apportando quale giustificazione il diritto alla libertà religiosa per esercitare pratiche e riti che in occidente abbiamo abbandonato da millenni, facendo appello alla loro «Carta del Cairo».
      La presente proposta di legge, fatti salvi i princìpi generali sanciti dall'articolo 8, commi primo e secondo, 17, 18 e 19 della Costituzione, introduce nuove disposizioni con le quali si demanda alle regioni la potestà di regolamentare i piani di edificazione e ristrutturazione degli edifici destinati a funzioni di culto delle confessioni religiose che non hanno ancora stipulato intese con lo Stato italiano.
      Infatti, considerato quanto già espresso nelle premesse della presente relazione, la definizione di edificio destinato all'esercizio del culto può essere più ampia e complessa rispetto ai canoni propri della tradizione cristiana: conseguentemente si ritiene che tale regolamentazione dovrebbe essere demandata alle regioni secondo quanto disposto dall'articolo 117 della Costituzione, che definisce il governo del territorio quale materia di potestà legislativa concorrente tra Stato e regioni.
      Il testo della proposta di legge in esame è composto di sei articoli.
      Il comma 1 dell'articolo 1 prevede che la realizzazione di nuovi edifici destinati a funzioni di culto e le ristrutturazioni sono ammesse, ai sensi della normativa vigente in materia, se vengono proposte da confessioni o da associazioni religiose che hanno sottoscritto l'intesa con lo Stato italiano (articolo 8 della Costituzione). Il comma 2 introduce nuove disposizioni qualora non siano state sottoscritte le intese di cui al comma 1, demandando alle regioni la potestà di autorizzare la realizzazione di nuovi edifici destinati a funzioni di culto per le confessioni che ne fanno richiesta.
      L'articolo 2 stabilisce che le confessioni o associazioni religiose richiedenti devono presentare alle regioni una apposita domanda corredata dal progetto edilizio e dal piano economico-finanziario, con l'elenco degli eventuali finanziatori italiani o esteri e che questa deve essere sottoscritta con atto notarile da un numero di aderenti alla confessione o all'associazione religiosa determinato dalla regione stessa. Le regioni, poi, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della legge, redigono un piano di insediamento degli edifici dedicati ai culti ammessi, che tiene conto del reale numero di immigrati regolari legalmente residenti sul proprio territorio. È altresì prevista l'approvazione di tali insediamenti, mediante referendum, da parte della popolazione del comune interessato.
      L'articolo 3 riporta un elenco di prescrizioni di natura urbanistico-edilizia alle quali le regioni devono attenersi modificando le proprie norme, per evitare che gli oneri di urbanizzazione secondaria vadano a finanziare opere che non rientrano nel principio di ripartizione previsto per gli edifici destinati ad uso religioso, come concepito originariamente dalle norme urbanistiche. Si sottolinea quindi la necessità che le norme regionali vadano a definire con maggiore precisione quanto disposto dal decreto del Ministro dei lavori pubblici n. 1444 del 1968. Evidenziando la necessità di regolare anche le modalità per la
 

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costruzione di edifici di culto facendo riferimento ad un principio di reciprocità troppo disatteso, si pone l'attenzione sul fatto che le disposizioni previste alle lettere a), b), c) e d) del comma 1 dell'articolo 3 non fanno altro che riprendere norme previste dall'ordinamento statale di alcuni Paesi che per tradizione culturale definiscono parametri ferrei all'insediamento di edifici religiosi.
      L'articolo 4 elenca norme la cui emanazione è riservata alla potestà legislativa statale, nell'ambito dell'ammissibilità degli statuti che regolano i rapporti tra lo Stato italiano e queste comunità facendo un elenco attraverso una serie di princìpi quali il rispetto dei diritti umani e della laicità dello Stato insiti nella storia repubblicana del nostro Paese e sanciti in modo indelebile dalla nostra Costituzione.
      L'articolo 5 ribadisce ulteriormente il concetto che la legge non si applica alle confessioni religiose che hanno stipulato intese con lo Stato ai sensi dell'articolo 8 della Costituzione.
      L'articolo 6 prevede una norma transitoria che stabilisce che gli edifici dedicati ai culti ammessi già esistenti si devono adeguare alle disposizioni previste dalla legge entro tre anni dalla data della sua entrata in vigore. Nell'ipotesi che tale adeguamento non sia possibile, è prevista una apposita autorizzazione regionale di carattere transitorio.
 

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